martedì 31 marzo 2009
Copenhagen, il verde che conviene
S ono almeno tre anni che Connie Hedegaard attende con impazienza il 2009, l'anno più importante della sua vita. O quantomeno, della sua vita politica. Ministro danese dell'Ambiente dal 2004, quando aveva 44 anni, ex giornalista, sarà la presidente e la playmaker del summit Onu sul clima che lei stessa è riuscita – in tempi non sospetti – a portare a Copenhagen. Una lungimiranza invidiabile: a dicembre, con ogni probabilità, verrà firmato il Protocollo di Copenhagen, che rimpiazzerà quello di Kyoto dal 2013 in poi. «No, non è il mio anno – si schermisce – questo è solo l'anno delle decisioni. Per raggiungere l'obiettivo,c'è da mettere d'accordo 191 Paesi sui tagli alle emissioni di gas-serra, in modo da riformare il nostro antiquato sistema energetico, da rivitalizzare l'economia e creare posti di lavoro». Facile a dirsi, difficile a farsi. Come la stessa Hedegaard sa benissimo. «Il primo degli annuali vertici Onu sul clima al quale ho partecipato – racconta il ministro durante una recente visita a Roma – fu quello di Buenos Aires, nel 2004: mi fece impressione, ascoltare così tante parole e assistere a così pochi fatti». È così, per ingaggiare la sfida dei fatti alle parole, che lei stessa decide di invitare 25 ministri dell'Ambiente in Groenlandia (ovvero in terra danese) per vedere i ghiacci che si sciolgono e per discutere insieme, «senza funzionari e burocrati al seguito». «Quella riunione informale ebbe così tanto successo che, al vertice di Nairobi del 2006, decidemmo di fare qualcosa di più». Sulla carta, il summit 2009 doveva toccare a qualche Paese sudamericano, forse il Brasile. Ma la Danimarca riesce a convincere tutti. Così, il prossimo dicembre, a meno di clamorosi colpi di scena, il nome della capitale danese entrerà nella storia.Al successivo vertice di Bali, dopo l'ennesimo fiume di parole, quei 191 Paesi decidono soltanto di decidere nel 2009, a Copenhagen. «Stavolta, non possiamo fallire », dice la Hedegaard con percepibile determinazione. «Come ha dimostrato il Protocollo di Kyoto, ci vogliono anni, prima che un trattato internazionale entri in funzione. Quindi non abbiamo tempo da perdere: il cambiamento climatico sta accelerando e, come ci dice la comunità scientifica, abbiamo da dimezzare le emissioni mondiali entro 40 anni».In compenso, anche il clima politico è cambiato. «Sono stata a Washington di recente: è come andare in una nuova città. L'amministrazione Obama assicura di voler introdurre in America un sistema di cap and trade », il taglio delle emissioni attraverso un meccanismo di mercato che Bush rifiutava. «La visita a Pechino di Hillary Clinton aveva solo due punti all'ordine del giorno: la crisi finanziaria e i cambiamenti climatici». La Cina – sin qui esentata da Kyoto – dimostra d'essere pronta a fare la sua parte, anche se «resta da decidere l'anno in cui i tagli alle sue emissioni diventeranno obbligatori». Sì, ma i Paesi più avversi alla diplomazia climatica, come l'Arabia Saudita?«Ci sono stata a gennaio – risponde il ministro – e stanno preparando ingenti progetti nel solare. Fra qualche decennio, esporterà più elettricità rinnovabile che petrolio».Secondo la signora Hedegaard, che due anni fa ha cambiato il proprio incarico da "ministro dell'Ambiente" a "ministro per l'Energia e il Clima" (prontamente imitata da Australia e Gran Bretagna), «i tempi sono così cambiati che il dibattito sul clima va avanti nonostante la crisi finanziaria in corso. Soltanto cinque anni fa, non sarebbe successo».Per rilanciare l'economia americana,Obama ha puntato 150 miliardi di dollari sul tavolo delle rinnovabili e dell'efficienza energetica, con l'obiettivo di salvare l'ambiente e creare al tempo stesso cinque milioni di posti di lavoro. La Danimarca ha già dimostrato che si può fare. «Negli anni 70 – osserva il ministro – eravamo dipendenti al 100% dal petrolio mediorientale». Fu allora, che il Governo decise di puntare sulle rinnovabili, a cominciare dall'energia eolica, visto che in Danimarca il vento non manca. I successivi Governi hanno mantenuto la barra dritta e «oggi produciamo il 130% del fabbisogno energetico: siamo diventati esportatori netti».Certo, nel frattempo la Danimarca ha trovato dei giacimenti di petrolio e di gas nel Mare del Nord. Però «il 19% della nostra energia viene dalle rinnovabili, che sale a quota 28% se si parla della produzione di elettricità. Bruciando i rifiuti domestici ed agricoli, produciamo elettricità e insieme calore per il riscaldamento decentralizzato delle case. La danese Vestas è leader mondiale nell'eolico. E non ci sono dubbi: i settori delle rinnovabili e dell'efficienza energetica sono quelli che hanno aumentato di più l'occupazione e l'export, negli ultimi anni».Se la Danimarca voleva dare l'esempio, c'è riuscita. Ma tutto questo non implica che il summit di Copenhagen sarà una passeggiata.Anzi. Non a caso, Connie Hedegaard è arrivata a Roma in questi giorni per chiedere tutto il sostegno dell'Italia, che ha la presidenza di turno del G8. «In calendario c'è il G8 dei ministri dell'Ambiente, convocato il mese prossimo a Siracusa. E poi il vertice di luglio alla Maddalena», per il quale Obama ha recentemente scritto a Berlusconi. «I negoziati veri e propri saranno a Copenhagen in sede Onu – commenta Hedegaard –ma dobbiamo riuscire a discutere prima, a gettare le fondamenta dell'accordo,e trovare le necessarie risorse finanziarie».Nella sua agenda,l'opzione di un insuccesso non è contemplata. «Nel passato –conclude il ministro globetrotter – la diplomazia del clima è stata soffocata dai veti incrociati e dall'inazione. Quest'anno, siamo mossi da un reale senso d'urgenza. E anche dal senso di responsabilità. Spero che non ci sia più nessuno che voglia ostacolare questo processo senza pagare un alto prezzo politico». Il 2009 è l'anno delle decisioni. Se arriveranno per davvero, sarà anche l'annus mirabilis. (Dal Sole 24 Ore)
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